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Cent’anni fondazione del Pci, quella fetta d’Italia che non ha conosciuto l’alte

Il libro

Cent’anni fondazione del Pci, quella fetta d’Italia che non ha conosciuto l’alternanza

Per i cent’anni dalla fondazione del Pci per Paesi edizioni è uscito il volume ‘I comunisti lo fanno meglio’ che unisce le testimonianze di tanti esperti della comunicazione e del giornalismo, intellettuali, politici ed esponenti illustri della cultura. Tra le tante firme anche quella di Carlo Giovanardi del quale qui riportiamo l’intervento integrale.

Per descrivere il mio anticomunismo, devo inevitabilmente parlare di Modena, la città dove sono nato e ho vissuto: il posto dove, almeno in Italia, l’egemonia vagheggiata da Vladimir Lenin ed elaborata da Antonio Gramsci ha avuto più successo. Modena, già capitale di Ducato e poi per secoli Stato indipendente sino all’annessione al Regno d’Italia nel 1861, è la città italiana dove la scissione di Livorno tra socialisti e comunisti del 1921 ha trovato il terreno più fertile, quello i cui effetti durano ancora cent’anni dopo. Alla vigilia della scissione, nelle prime elezioni politiche dopo la Grande Guerra, il 15 novembre 1919 il Partito socialista, dove stavano assieme riformisti e rivoluzionari, aveva ottenuto a Modena il 60% dei voti, surclassando popolari e liberali. Nelle elezioni del 1921, dopo la scissione e con la concorrenza dei neonati fascisti, in Emilia Romagna su 39 deputati eletti 14 furono i socialisti e 2 i comunisti, complessivamente con il 41% dei voti.

Uno zio materno, che dopo Caporetto si era spostato da Fara Vicentino a Formigine, passando dal Veneto bianco alla rossa provincia modenese, mi raccontava dello stupore d’essersi trovato in un mondo totalmente diverso da quello da cui proveniva. A Fara la sua famiglia di coltivatori diretti si trovava la sera a far filò nella stalla dove i padroncini, i braccianti e i bovari parlavano tutti rigorosamente dialetto veneto, in un mondo comunitario dove il parroco e la parrocchia (come in Lombardia) erano il punto di riferimento di tutti, in un fiorire di iniziative sociali in nome dell’interclassismo. In Emilia, al contrario, i padroni ci tenevano a esprimersi in italiano per distinguersi dalle classi subalterne; braccianti e mezzadri vedevano nei proprietari terrieri degli implacabili nemici; e i preti, indicati con disprezzo come quei «brot begoun negher» (cioè «brutti vermi neri»), erano identificati a loro volta come sfruttatori, in quanto spesso titolari di prebende parrocchiali e quindi omologabili con gli odiati padroni, che a loro volta non facevano nulla per non farsi odiare.

Fatto sta che, dopo la parentesi del fascismo, anche a Modena ci fu un’adesione di massa al comunismo: alle prime elezioni amministrative del 1946 il Comune capoluogo venne espugnato dalla sinistra con il Partito comunista al 48,12% e il Partito socialista al 19,13%.

Chi ha visto i film e letto i libri di Giovanni Guareschi su Don Camillo e Peppone può avere un’idea di come poteva essere allora la militanza nel Pci, con il mito del «compagno Stalin» e dell’Unione Sovietica, e la certezza granitica che il mondo si divideva in chi era comunista e chi lo sarebbe diventato. Purtroppo nella realtà l’egemonia dei comunisti venne anche imposta con metodi famigerati, come quelli avvenuti nel tristemente noto «triangolo della morte», ben dopo la fine della guerra. Dal maggio 1945 al 1948 vennero eliminati fisicamente centinaia di ex fascisti, possidenti, sacerdoti, avversari politici: una vera e propria strage compiuta da chi  riteneva imminente la rivoluzione. È storicamente accertato che dietro questo clima di terrore non c’ era la regia di Palmiro Togliatti e degli altri dirigenti comunisti dell’epoca, ma certamente ai «compagni che sbagliano» veniva agevolata la via di fuga verso i Paesi socialisti, soprattutto verso Praga, per non cadere nelle mani della giustizia.

Questo è il retroterra storico, politico e sociale dove la mia Modena, divenuta nel secondo dopoguerra una delle città più ricche e imprenditorialmente più avanzate d Italia, vanta un record forse unico al mondo: da 73 anni il primo cittadino è stato espresso sempre e unicamente dal Pci prima o dagli ex comunisti dopo; in varie sigle, ma sempre dall’area collegata a quella tradizione. Per capirci meglio, a Modena non è mai stato eletto sindaco nessun ex socialista o ex democristiano.

Quando nel 1975 divenni consigliere comunale della Democrazia cristiana a Modena, mi trovai davanti 29 consiglieri eletti dal Pci su 50, senza che mai emergesse un qualche dissidio o dissenso al loro interno. Al massimo, proprio come scrive Alexander Solzenicyn in Arcipelago Gulag, poteva accadermi che mentre il consigliere comunista «cattivo» inveiva verso i dissidenti (nel nostro caso, i 12 consiglieri democristiani) quello «buono» si avvicinava ai nostri banchi per spigarci con cortesia quanto avesse ragione quello cattivo.

Stiamo parlando di una realtà nella quale la Dc aveva a Modena un funzionario di partito pagato da Roma, mentre il Pci cittadino, come dimostrammo in un opuscolo intitolato Nomenklatura rossa, ne aveva più di 200, senza contare poi sindaci, assessori, presidenti e segretari e funzionari di associazioni collaterali (la Cgil, l’Unione donne italiane, l’Arci, la Lega delle coop, l’Alleanza dei contadini…) la cui missione era anche quella d’impegnarsi fortemente in campagna elettorale per il successo del Partito.

In quel contesto, i funzionari del Pci erano protagonisti di una triangolazione che vedeva gli stessi personaggi ricoprire ruoli politici, amministrativi: erano al vertice di associazioni economiche, consiglieri regionali o parlamentari come se non esistesse nessun conflitto d’ interesse.

Di sicuro le risorse che i partiti democratici dovevano procurarsi all’esterno per reggere la concorrenza di questa macchina da guerra li ha portati alla rovina al tempo di Tangentopoli, mentre la mastodontica struttura burocratica del Pci trovava il modo di far quadrare i conti tramite Mosca, con i piani commerciali, le varianti urbanistiche e ufficialmente con le salamelle cotte al Festival dell’Unità.

Questa confusione di ruoli, a Modena, è continuata anche dopo che il Pci ha cambiato nome, con effetti che non hanno eguali in altre parti d’ Italia: non a caso l’Autorità antitrust nel 2012  ha sanzionato la Coop Estense per 4 milioni e 600mila euro per aver abusato della sua posizione dominante che l’ha portata a detenere il 66% del mercato degli ipermercati e il 47% dei supermercati in Provincia di Modena, impedendo alla concorrenza di accedere al mercato e determinando così un danno ai consumatori in termini di maggiori prezzi e/o di minore scelta.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi come sia possibile che in un clima così «totalitario», che si estende anche agli incarichi professionali in cui sono sempre stati privilegiati i soliti noti «amici degli amici», si siano sviluppate migliaia di aziende tra cui eccellenze come la Ferrari o come si siano potute espandere idee geniali come quella della Panini Editori, la casa delle figurine. La risposta è semplice (e anche di moda visto che si parla tanto di modello cinese) e ho avuto modo di provarlo con le polemiche pubbliche e private che ebbi con due grandissimi dell’impresa come Enzo Ferrari e Giuseppe Panini, quando c’era ancora il Muro di Berlino, la Formula 1 correva solo in Occidente e le Ferrari non si vendevano all’Est. Sapevo benissimo che i due erano di idee politiche lontanissime dalla sinistra e così non mi capacitavo degli appelli di Ferrari a votare social-comunista nelle elezioni amministrative a Modena o dell’approdo di Panini al Psi, alleato a Modena con il Pci.

Non avevo capito che i comunisti seri come quelli cinesi, o gli ex comunisti che comunque hanno capito come funziona, fanno di tutto per agevolare gli imprenditori che creano ricchezza, garantendo loro pace sindacale, varianti ad hoc, occhi chiusi su eventuali marachelle, ma sempre a condizione che non si mettano in testa di contestare chi comanda a livello politico (ne sanno qualcosa a titolo diverso Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti).

Per completare il quadro, invito i lettori a verificare quale sia la città d’Italia in cui, da quando sono nate le correnti della magistratura, la corrente di sinistra, e cioè Magistratura democratica, è più forte. Scopriranno con relativa sorpresa che quella città è Modena, dove nei decenni passati documentatissime denunce delle opposizioni venivano lestamente archiviate. Le poche volte in cui poi c’era un rinvio a giudizio, come diceva il vecchio deputato dc modenese Franco Bortolani, «avvenivano sorprendenti assoluzioni per aver commesso il fatto».

C’è quindi da meravigliarsi se Giancarlo Muzzarelli, d’estrazione Pci, è diventato sindaco per la seconda volta a Modena nel 2019 vincendo al primo turno con il 53,4% dei voti, e se il modenese Stefano Bonaccini, di professione funzionario di Partito, nel 2020 ha vinto le regionali in Emilia con il 51,4% dei voti?

C’è soltanto da rallegrarsi che in tutte le altre parti d’Italia, dove Comuni, Regioni e Provincie hanno conosciuto alternanza di classi dirigenti di ogni tipo, non siano riusciti a imitare gli allievi più capaci e spregiudicati ad interpretare lo spirito della scissione di Livorno e le lezioni di Antonio Gramsci.


 
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